Visitando le grotte di Ajanta si entra nel mondo della tradizione buddhista che qui utilizza delle sculture ammirevoli e soprattutto degli affreschi che vanno considerati ai vertici dell’arte pittorica universale. A dispetto dei loro contenuti essenzialmente religiosi, che ne fanno un vero e proprio catechismo, questi affreschi rivelano una civiltà raffinata e idealizzata, forse, in parte, ispirati da poeti come Kalidasa, il più grande poeta della letteratura classica indiana (IV-V sec. d.C.)

Le grotte, scoperte per caso nel 1819 da alcuni soldati inglesi, furono create in due epoche diverse: nel I e II secolo a.C. il primo gruppo, nel V e VI secolo d.C. il secondo gruppo.    I monaci che abitarono il primo gruppo di grotte appartenevano al buddhismo Hinayana (piccolo veicolo) o Theravada, mentre  quelli del secondo gruppo facevano parte del Mahayana (grande veicolo), forma più evoluta del buddhismo, che fece la sua comparsa all’inizio della nostra era. Questa distinzione permette di comprendere le profonde differenze che vi sono negli ornamenti dei due gruppi, differenze che dipendono non solo dall’orientamento e dal sentimento artistico dell’epoca, ma anche dalle correnti di pensiero caratteristiche di queste due forme di buddhismo.

Il buddhismo Hinayana era orientato verso la tradizione e la semplicità e rifiutava la rappresentazione del Buddha, in quanto il maestro si era sempre opposto a ogni tendenza a essere deificato da parte dei suoi discepoli e, quindi,  era presente nei templi sotto forma di simboli: l’albero Bodhi, la ruota della legge, l’impronta dei piedi….Il buddhismo Mahayana andò invece verso il misticismo, divinizzò il Buddha, adottò il culto delle immagini e sviluppò riti che finirono per divenire fastosi nelle comunità che ricevevano offerte da laici desiderosi di acquisire meriti spirituali. Il Sangha divenne non solo una forza morale, ma anche politica e economica grazie ai doni dei fedeli. Il concetto di austerità e, di conseguenza, di santità di alcuni monasteri valse innumerevoli donazioni, inalienabili perché sacre e non utilizzabili direttamente dai frugali monaci: pertanto queste furono sovente utilizzate nella costruzione e nell’ornamento dei santuari e dei monasteri, alcuni dei quali rappresentarono le prime società capitaliste dell’Asia. La bellezza della decorazione scolpita perfettamente integrata nell’architettura indica chiaramente che i monaci di Ajanta disponevano di grandi risorse finanziarie

Dallo studio delle grotte non completate si è dedotto che i lavori partivano dalla parte di roccia che doveva costituire la facciata; tracciati i contorni si procedeva a scavare delle gallerie laterali più o meno profonde, quindi, a partire da queste gallerie, lo scavo veniva effettuato dall’alto verso il basso, riservando i blocchi destinati alle colonne e agli altri elementi che, come gli stupa, dovevano apparire in rilievo. Il procedere dall’alto verso il basso appare evidente dalle sculture non completate cui mancano le finiture nella parte bassa.

Le pitture murali di Ajanta, che datano V e VI secolo, sono senza dubbio le più belle dell’arte buddhista. La maggior parte di esse hanno per tema la narrazione degli jataka, che erano dei racconti sulle vite anteriori del Buddha, o scene relative alla vita del Buddha secondo la tradizione. Ne deriva un mondo popolato di santi. di saggi, di re, di nobili, di cortigiani, di pescatori, di mendicanti: in sostanza uomini e donne di tutte le condizioni nei loro abiti più vari.

L’affresco più famoso, forse il più bello tra quelli giunti a noi, è quello del “Bodhisattva dal loto blu”, personificazione della compassione e della carità, elegantemente rappresentato nella posa del “tribhanga”; la grazia e il fascino di quest’opera, oltre alla tecnica e all’abilità pittorica (notevole anche considerando che gli artisti creavano a lume di candela)   ha indotto critici e studiosi a confronti con la nostra pittura rinascimentale (!)