L’area archeologica di Paestum racchiude tesori di inestimabile valore storico e artistico. Tra questi un esempio unico di pittura di età greca della Magna Grecia, la tomba del tuffatore, una sepoltura a lastroni in travertino locale, chiusa da una copertura piana, con affreschi sulle pareti interne.   Si tratta di una testimonianza unica  della pittura greca di grandi dimensioni, non vascolare, prima del IV sec. a.C. (la tomba, scoperta nel giugno del 1968, è databile tra il 470 e il 480 a.C. ovvero nel periodo di maggior splendore di Paestum tra la costruzione del tempio di Atena – impropriamente di Cerere- e quella del tempio di Nettuno).

La scena del tuffatore, che si trova sul lato interno della lastra di copertura, rappresenta un eccezionale messaggio metafisico, trasmesso attraverso il linguaggio visivo, in un periodo in cui, nelle città greche dell’Italia meridionale, filosofi come Pitagora e Parmenide affrontavano questioni legate alla metafisica e alla vita dopo la morte. Si diffondevano credenze ispirate dal pitagorismo e dall’orfismo (il mito di Orfeo che torna dall’Ade grazie alla musica) condivise solo da chi era “iniziato” nei misteri di questa tradizione : in proposito qualcuno ha ipotizzato che la persona sepolta nella tomba fosse appunto  un “iniziato”.  Un paesaggio marino dove le ondulazioni fanno sentire un fremito della superficie dell’acqua (l’al di là?), mentre il tuffatore è dipinto in elegante volo. Sulle quattro lastre, che costituiscono le pareti della cassa, sono rappresentate scene tradizionali di simposio e di banchetto sui lati lunghi  e personaggi in cammino sui lati brevi.

I personaggi dei banchetti, a gruppi di due, sono presentati con grande vivacità in diverse posizioni: mentre giocano al cottabo **, suonano la cetra o il dìaulos, ed allungati o seduti sui letti conversano animosamente. I movimenti si distribuiscono da un gruppo all’altro attraverso le posizioni dei corpi, con i busti mostrati in tre quarti ed in completa torsione, i volti animati da intense espressioni. Due ospiti, posate le coppe su un basso tavolino, indugiano in gesti di affetto omosessuale.

Le scene simposiache sono interpretate come un convivio funebre. Un’interpretazione simbolica, quale emblema del trapasso ultraterreno, si presta bene a denotare la scena del tuffo. La piattaforma da cui si lancia il tuffatore allude forse alle “pulai” le mitiche colonne poste da Ercole a segnare il confine del mondo, simbolo del limite della conoscenza umana. La posa atletica del volo verso il mare rappresenterebbe il transito verso un mondo di conoscenza diversa da quella terrena cui un giovane greco accede secondo le esperienze esemplificate nel simposio: l’abbandono al vino, all’eros, all’arte sia essa musica, canto o poesia.

Il pittore ha utilizzato la tecnica a tempera con il procedimento della sinopia, su di un intonaco di calce e sabbia, applicato in due strati dei quali il più sottile, in superficie, ben levigato e liscio, contiene anche una polvere di marmo che gli conferisce brillantezza e consistenza.  Nella creazione pittorica c’è particolare cura nel disegno e nel volume dei corpi.

La tomba del tuffatore rappresenta tuttavia un manufatto anomalo e di difficile collocazione nel contesto evolutivo dell’arte greca: l’uso di figurazioni nelle sepolture era infatti sostanzialmente sconosciuto alla Magna Grecia. Esso risultava invece tipico dell’Etruria il cui influsso artistico e culturale appare evidente in quest’opera  in particolare nell’associazione tra temi ultraterreni e contesti conviviali, a testimonianza della profondità e reciprocità degli scambi tra le due civiltà sulle due sponde del Sele.

 

 

**Gioco molto in voga presso i Greci e gli Etruschi, e che noi conosciamo dalle descrizioni lasciateci dagli antichi, dalle rappresentazioni vascolari e da vari esemplari, rinvenuti negli scavi, dello strumento che serviva per giocare e si chiamava anch’esso cottabo.
Alceo e Anacreonte ne parlano già nel sec. VI a.C. Si vede frequentemente nelle scene di banchetto dipinte su vasi a figure rosse: esso era infatti il passatempo preferito dalla gioventù ateniese, specialmente durante i conviti.
La passione per questo gioco predominò nel suo paese d’origine, la Sicilia. Le fonti parlano di due tipi di cottabo:
Il primo consisteva nel lanciare alcune gocce di vino rimaste nel fondo della tazza contro dei piccoli vasi messi a galleggiare in un recipiente pieno d’acqua: chi ne colpiva il maggior numero diveniva vincitore, e come premio  riceveva uova, farina, dolci o presagi, specie in amore.
Il secondo, descritto da Antifone, è composto da tre parti: un’asta verticale di lunghezza variabile (m.1.30-2) assottigliata in alto, di cui un’estremità è fissa sopra una base pesante. Sull’estremità superiore è posto in bilico un dischetto. A mezz’asta è infilato un secondo disco più grande, sostenuto da una ghiera fissa o da un anello scorrevole. Il giocatore lanciava della libagione contro il piattello in bilico che doveva cadere nel disco centrale.
Il gioco del cottabo continuò ancora nel III sec. a.C. poi cadde in disuso. I Romani non lo hanno mai conosciuto.